Testatina-1953-rIn una delle sue risposte ai lettori, nella rubrica Dalla parte di Lei che curava per il settimanale Epoca, Alba de Céspedes si trovò ad affrontare un problema che recentemente è tornato di grande attualità: quello del vizio del gioco, che ora viene affrontato e curato proprio come una patologia o una dipendenza. Ecco la sua risposta a due lettere disperate (era il 1955):

Il vizio del giuoco è tra tutti il più difficile da superare anche perché, in generale, chi è dedito ad esso non ha un la­voro, una attività, che susciti in lui un interesse più forte di quello. Un uomo che abbia abbandonato la famiglia per una donna può tornare ad essa se l’amore finisce o lo delude né più aver voglia di ricomin­ciare, ma il giocatore, al con­trario, è dalle sue stesse delu­sioni e sconfitte incitato a con­tinuare. Il rimorso di aver per­duto ciò che possedeva, e che era necessario alla famiglia, è la scusa che egli prende per riaccingersi continuamente al tentativo di rifarsi; e in que­sto s’accanisce fino a perdere tutto ciò che possiede per crol­lare poi, inerme, nella dispera­zione. Quindi sottrarre al gio­catore i capitali che ancora possiede è, spesso, il solo modo per impedirgli di continuare: soprattutto perché ciò lo priva del credito che egli riscuote presso i compagni di giuoco i quali immediatamente si disin­teresseranno di lui, sapendolo incapace di pagare. Chi paga i debiti di un giocatore intende, col proprio sacrificio, salvare l’onore di lui; e ciò può essere giustificabile verso colui che una volta, per debolezza, ha commesso un inconsueto erro­re. Ma chi giuoca continua­mente, distruggendo il benesse­re della propria famiglia, è un irresponsabile. E quindi – co­me i pazzi, come tutti coloro che sono dominati da un vizio, da una mania – non può più essere responsabile del proprio onore. Tanto meno possono es­serlo quelli che della sua irre­sponsabilità sono le vittime.

Il dovere di una donna in casi come questi non può es­sere quello di rimanere accan­to al marito; come non lo sa­rebbe quello di salire, con i propri figli, sul rogo in cui bru­cia il cadavere di lui. Il dovere di ogni creatura umana è in­nanzi tutto quello di difendere la propria dignità e il benesse­re di coloro che, indifesi e in­nocenti, a lei sono affidati. In casi simili a quello della let­trice calabrese mi pare che la separazione sia più che un di­ritto, un dovere: impostole an­che dalle sue responsabilità di madre. Cosi come una donna lasciata sola ed esposta a tutti i pericoli della solitudine ed a quelli dell’indigenza per sé e per i propri figli – come la gio­vane lettrice romana – ha diritto di cercare nel lavoro le proprie soddisfazioni, anche per essere pronta a sostituirsi, un giorno, presso i figli, a un pa­dre dimentico delle proprie re­sponsabilità.

Ed ecco un sunto delle due lettere, ovviamente anonime:

Ventiquattrenne, sposata da­ sei anni, ho due bambine. Mio marito, ventisettenne, col qua­le mi sposai per vero amore, si è dato totalmente al giuoco delle carte, passando molte ore diurne e notturne in compa­gnia di uomini attempati che alimentano il suo vizio. Io, fi­nora, ho vissuto solo per lui e, pur avendo il diploma magi­strale e gran voglia di far scuola, ho rinunziato all’inse­gnamento per compiacerlo. Ora, vedendo che il suo affetto si spegne e che, senza ascol­tare le mie proteste e preghie­re, egli vive fuori della fami­glia, per non soffrire del suo comportamento e trovare un interesse superiore, vorrei tor­nare all’antica vocazione. Mi domando se farei bene. (EADAM, ROMA)

Mi sono sposata a sedici an­ni con un uomo che amavo e che, presto, dimentico di me e dei nostri due figli, smise di lavorare per dedicarsi comple­tamente al giuoco. Ha perduto alcuni beni che possedeva, e di ciò che possedevo io rimane so­lo la casetta in cui viviamo e un piccolo podere. Più volte gli ho annunziato la mia decisio­ne di separarmi; egli mi ha supplicato di rimanere per sal­varlo, promettendo di cambia­re; ma, dopo qualche giorno, tornava al suo vizio irresisti­bile. Dispero, perciò, di salvar­lo, ma vivo in un paese in cui la donna per tradizione deve tutto accettare e sopportare dal marito, sicché mi dicono che il mio primo dovere è quel­lo di rimanere con lui aspet­tando che cambi. Dopo annose esperienze io temo che presto anche la casetta e il podere lasciatomi da mio padre segua­no la sorte del resto e che i miei bambini non abbiano più da mangiare. (LETTRICE, CATANZARO)

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