Qualche tempo fa, in una merceria, compravo dei calzini. Il negoziante si avvicinò a una calcolatrice di quelle che stampano, batté alcuni tasti, aspettò l’uscita della striscetta di carta col totale e mi disse: “trentacinque”. Mentre andavo a pagare potei buttare l’occhio su quella striscia stampata. C’era scritto: 5 * 7 = 35. Restai sconcertato.
Possibile che il negoziante fosse tanto ignorante da non conoscere la tabellina del cinque? Non credo. Forse, semplicemente aveva preso l’abitudine di fare tutti i conti con la calcolatrice, sia per problemi semplici come quello, sia per calcolare sconti complessi o operazioni con l’IVA. A cosa rinunciava con questa decisione? Rinunciava all’esercizio di un’abilità.
Così come quelli che prendono l’auto sia per attraversare l’Europa, sia per andare al tabacchino all’angolo. Non pensano che un posto vicino si può raggiungere anche a piedi: ci si sposta in macchina. A cosa rinunciano? Negli anni ’50 qualcuno sosteneva che l’uomo del futuro sarebbe nato senza gambe o con delle gambette atrofizzate, dato che non le usava più per camminare e salire le scale.
Ogni tanto, in questo mondo dallo sviluppo tumultuoso, viene lanciato un allarme. Il nemico è la tecnologia che fornisce nuovi strumenti destinati a soppiantare abilità conquistate in migliaia di anni. Occorre dire che gli ultimi anni hanno visto delle vere rivoluzioni, e i misoneisti hanno del bel pane per i loro denti.
Per esempio, uno degli aspetti che preoccupa i nemici del progresso, è la perdita della memoria, ma non la memoria di fatti, storie, luoghi: quella spicciola che serve per ricordare i numeri di telefono e altri semplici dati della vita quotidiana. Demandiamo tutto ciò allo smartphone, che ci risolve questo e altri mille problemi, compreso leggere una carta stradale, recuperare il nome di un attore o ricordarci di un compleanno. Piccole tecniche mnemoniche che si disimparano, o che non si imparano affatto. Mia madre conosceva a memoria il numero di telefono di decine di persone, compreso il negozio delle bombole del gas, e mentre faceva la spesa aveva un totalizzatore interno che le permetteva di conoscere in anticipo l’ammontare dello scontrino – usava quella tecnica che si chiama “il conto della serva” – per poter contestare immediatamente eventuali errori o tentativi di truffa. Oggi buttiamo le merci nel carrello, poi alla cassa tiriamo fuori la carta, digitiamo il pin e usciamo senza neppure sapere quanto abbiamo speso.
L’aspetto più inquietante di questa rivoluzione tecnologica però è legato alla scrittura. Dopo migliaia di anni di scrittura a mano, improvvisamente l’umanità si trova davanti a una tastiera. Niente più corsivo, svolazzi, belle o brutte calligrafie, ma semplice, facile digitazione, aiutata da software di autocompletamento di parole e frasi, e da correttori ortografici automatici. Al confronto con questo problema, quello delle tecniche di memorizzazione o del calcolo mentale, o dell’atrofizzazione delle gambe a furia di non usarle, sono bazzecole. Qui si tratta della struttura stessa del nostro cervello, costruita e sviluppata proprio intorno al linguaggio e alla manualità.
Nel momento in cui si prende in mano una matita per scrivere, il cervello mette in moto una serie di abilità apprese fin dalla più tenera infanzia. Infatti deve tradurre un’idea in parole, le parole in frasi ordinate e grammaticalmente corrette, le frasi nuovamente in singoli fonemi che poi vanno tradotti in simboli grafici. Il tutto viene poi affidato alle speciali aree che si occupano delle abilità motorie di precisione della mano, utilizzando tra l’altro le risposte tattili fornite dalla penna e dalle asperità della carta, mentre l’apparato visivo controlla la qualità della scrittura, lo spazio scritto e quello che rimane, decide se e quanto ingrandire, rimpicciolire, andare a capo eccetera. Tutto questo risente ovviamente dello stato mentale, di salute, dell’età e del sesso di chi scrive, per cui ciò che scriviamo a mano è volta per volta unico, irripetibile e ricco di informazioni molto più delle parole di cui è composto.
In realtà, la nostra capacità di fare ragionamenti complessi dipende anche dall’esercizio che facciamo quando scriviamo. L’asimmetria della scrittura a mano poi, dicono gli esperti, serve ad aprire la mente a percorsi non standard, e l’impossibilità di correggere intere frasi già scritte insegna a mantenere a mente lunghi periodi codificati in parole e frasi, in modo da trasferirli correttamente sulla carta. Insomma, la stessa intelligenza si è formata intorno al linguaggio scritto.
Cosa si perde se si abbandona la matita e si passa alla tastiera? Apparentemente niente, a parte i fronzoli inutili. Non ci sono più belle calligrafie o brutte calligrafie, o peggio scritture incomprensibili. La comunicazione, apparentemente, ci guadagna. Per uno come me, poi, nato mancino e costretto a usare la “mano giusta”, è una vera liberazione.
Secondo alcuni ciò che si perde invece è tanto: si perde un esercizio cerebrale tra i più complessi, che porta dall’astrazione dell’idea alla concretezza di piccoli disegni, sottili e precisi, di una matita su un foglio, come un passaggio dalla metafisica alla fisica, un miracolo che mette in vista l’anima di chi scrive attraverso i movimenti della mano. E tutto questo lo si apprezza poi nell’operazione opposta, quando si legge uno scritto corsivo.
Forse bisognerà tener conto di questo patrimonio conquistato col contributo di tante generazioni, prima di liquidarlo sbrigativamente dicendo: basta scrivere a mano, d’ora in poi si scrive tutti con una tastiera. Scrivere a mano, in corsivo, poche righe al giorno, potrebbe essere un allenamento utile al cervello come l’esercizio fisico per il tono muscolare. Oppure il cervello svilupperà altre abilità, finora sopite e inaspettate, che sostituiranno l’intelligenza basata sulla scrittura a mano con altre intelligenze. Ma ci vorranno migliaia di anni per vedere i risultati. (23/07/15 P.P. Alberigi – Illustrazione di Enrica)