In una delle sue risposte ai lettori, nella rubrica Dalla parte di Lei che curava per il settimanale Epoca, Alba de Céspedes si trovò ad affrontare un problema che recentemente è tornato di grande attualità: quello del vizio del gioco, che ora viene affrontato e curato proprio come una patologia o una dipendenza. Ecco la sua risposta a due lettere disperate (era il 1955):
“Il vizio del giuoco è tra tutti il più difficile da superare anche perché, in generale, chi è dedito ad esso non ha un lavoro, una attività, che susciti in lui un interesse più forte di quello. Un uomo che abbia abbandonato la famiglia per una donna può tornare ad essa se l’amore finisce o lo delude né più aver voglia di ricominciare, ma il giocatore, al contrario, è dalle sue stesse delusioni e sconfitte incitato a continuare. Il rimorso di aver perduto ciò che possedeva, e che era necessario alla famiglia, è la scusa che egli prende per riaccingersi continuamente al tentativo di rifarsi; e in questo s’accanisce fino a perdere tutto ciò che possiede per crollare poi, inerme, nella disperazione. Quindi sottrarre al giocatore i capitali che ancora possiede è, spesso, il solo modo per impedirgli di continuare: soprattutto perché ciò lo priva del credito che egli riscuote presso i compagni di giuoco i quali immediatamente si disinteresseranno di lui, sapendolo incapace di pagare. Chi paga i debiti di un giocatore intende, col proprio sacrificio, salvare l’onore di lui; e ciò può essere giustificabile verso colui che una volta, per debolezza, ha commesso un inconsueto errore. Ma chi giuoca continuamente, distruggendo il benessere della propria famiglia, è un irresponsabile. E quindi – come i pazzi, come tutti coloro che sono dominati da un vizio, da una mania – non può più essere responsabile del proprio onore. Tanto meno possono esserlo quelli che della sua irresponsabilità sono le vittime.
Il dovere di una donna in casi come questi non può essere quello di rimanere accanto al marito; come non lo sarebbe quello di salire, con i propri figli, sul rogo in cui brucia il cadavere di lui. Il dovere di ogni creatura umana è innanzi tutto quello di difendere la propria dignità e il benessere di coloro che, indifesi e innocenti, a lei sono affidati. In casi simili a quello della lettrice calabrese mi pare che la separazione sia più che un diritto, un dovere: impostole anche dalle sue responsabilità di madre. Cosi come una donna lasciata sola ed esposta a tutti i pericoli della solitudine ed a quelli dell’indigenza per sé e per i propri figli – come la giovane lettrice romana – ha diritto di cercare nel lavoro le proprie soddisfazioni, anche per essere pronta a sostituirsi, un giorno, presso i figli, a un padre dimentico delle proprie responsabilità.“
Ed ecco un sunto delle due lettere, ovviamente anonime:
Ventiquattrenne, sposata da sei anni, ho due bambine. Mio marito, ventisettenne, col quale mi sposai per vero amore, si è dato totalmente al giuoco delle carte, passando molte ore diurne e notturne in compagnia di uomini attempati che alimentano il suo vizio. Io, finora, ho vissuto solo per lui e, pur avendo il diploma magistrale e gran voglia di far scuola, ho rinunziato all’insegnamento per compiacerlo. Ora, vedendo che il suo affetto si spegne e che, senza ascoltare le mie proteste e preghiere, egli vive fuori della famiglia, per non soffrire del suo comportamento e trovare un interesse superiore, vorrei tornare all’antica vocazione. Mi domando se farei bene. (EADAM, ROMA)
Mi sono sposata a sedici anni con un uomo che amavo e che, presto, dimentico di me e dei nostri due figli, smise di lavorare per dedicarsi completamente al giuoco. Ha perduto alcuni beni che possedeva, e di ciò che possedevo io rimane solo la casetta in cui viviamo e un piccolo podere. Più volte gli ho annunziato la mia decisione di separarmi; egli mi ha supplicato di rimanere per salvarlo, promettendo di cambiare; ma, dopo qualche giorno, tornava al suo vizio irresistibile. Dispero, perciò, di salvarlo, ma vivo in un paese in cui la donna per tradizione deve tutto accettare e sopportare dal marito, sicché mi dicono che il mio primo dovere è quello di rimanere con lui aspettando che cambi. Dopo annose esperienze io temo che presto anche la casetta e il podere lasciatomi da mio padre seguano la sorte del resto e che i miei bambini non abbiano più da mangiare. (LETTRICE, CATANZARO)