- Rileggendo Alba de Céspedes – Gran parte delle radici della nostra cultura, dei nostri comportamenti e anche dei pregiudizi provengono dal periodo di grande sviluppo della nostra repubblica, dopo i disastri del fascismo e della guerra. Sono gli anni ’50 e ’60. L’Italia si apre al mondo, importa ed esporta letteratura, cinema, forza lavoro, comunicazione e tecnologia. Davanti a questa apertura, molte famiglie si chiudono su sé stesse per difendere gli antichi valori, ma contemporaneamente nasce la coscienza di classe, il femminismo, e anche il razzismo strisciante e mai dichiarato. Nella rubrica di lettere tenuta in quegli anni da Alba de Céspedes su Epoca tutto questo è ben visibile, e permette un’analisi lineare della società di allora, forse più semplice dell’attuale, ma ricca di tanti spuinti che possiamo ancora oggi riconoscere. Volta per volta si parla di questione femminile, movimenti migratori, razzismo, religione, morale, e ovviamente, essendo una rubrica di lettere indirizzate a una donna, di questioni sentimentali. Molte delle lettere e delle relative risposte sono raccolte nel volume Dalla parte della ragione, che si può ordinare dal nostro catalogo.
La disperazione per un amore finito: ecco un tema che non invecchia, e sul quale su può essere originali anche nel 1954:
Da qualche mese sono stato abbandonato dalla mia fidanzata perché lei, d’improvviso si è innamorata di un campione sportivo. In principio non ho sofferto tanto benché l’amassi e mi fosse difficile riuscire a dimenticarla, pur considerando che, se ella valeva tanto poco da perdere la testa per una persona che non ha altre attrattive oltre quelle fisiche, non meritava che la rimpiangessi. Invece ora che non l’amo più e raramente penso a lei, la mia vita è dominata da una malinconia, una disperazione che non riesco a vincere né a giustificare. (OSCAR, GENOVA)
Un simile stato d’animo – quando abbiamo amato davvero e l’amore illuminava tutti i momenti della nostra vita – non è incomprensibile, ma, al contrario, naturale. Nei primi tempi, infatti, lo sforzo che dobbiamo compiere per distruggere in noi la figura della persona amata e il nostro trasporto per lei, impegna tutte le nostre facoltà, riempie la nostra giornata, riuscendo a distrarci dalla sofferenza. La polemica, lo sprezzo che rasenta l’odio e, soprattutto, l’animosità che nutriamo contro l’infedele, ci impediscono di provare rimpianto. Ma una volta distrutto l’amore, ritrovata la calma, la nostra profonda, consapevole sofferenza incomincia. Perché è allora che la nostra vita, deserta di sentimenti, ci si presenta malinconicamente vuota o almeno priva di tutti quei motivi di interesse e di felicità che l’amore ci aveva fornito. A sorreggerci, nei primi tempi, bastava il nostro rancore, ma è più tardi che dobbiamo raccogliere tutte le nostre forze che mai, prima d’allora, ci saranno sembrate tanto scarse. Bisogna ammettere la nostra debolezza, riconoscere che da noi soli non riusciremmo a riprenderci; e, deliberatamente, chiedere aiuto a distrazioni, a interessi, ad amicizie, a tutto quanto può soccorrerci colmando quel vuoto in cui, altrimenti, non potremo che precipitare. E tutto, dapprima, ci respingerà; ogni occupazione, conversazione, compagnia ci sembrerà odiosa a confronto di quella, impareggiabile, della quale avevamo goduto. Bisogna risolutamente riconoscere che non può essere altrimenti; non dobbiamo pretendere di superare facilmente una grave delusione amorosa, ma accettare di essere menomati, come lo accettiamo durante la convalescenza che segue una grave malattia. Del resto la possibilità di chiedere aiuti, di appoggiarci ad altri, abbandonando per qualche tempo l’orgoglioso impegno di trarre ogni conforto da noi stessi, è uno degli incanti della convalescenza, dovremo appoggiarci a cose e persone per non cadere nel muovere nuovamente i primi passi, ma ogni passo avrà l’importanza di una vittoria; e il prestigio di tutte queste successive vittorie porteremo in noi, nella nuova sicurezza con la quale, a poco a poco, senza quasi avvedercene, riprenderemo a camminare speditamente da soli.
A proposito del razzismo, oggi di grande attualità, ecco un estratto del 1955 (una risposta globale a sei lettere in tema):
Sono una giovane americana; mio padre è negro, mia madre è bianca. Mi trovo in Italia per studi. Credevo di trovare qui nessun pregiudizio razziale; il mio colore non fa grande differenza, solo grande curiosità in un Paese di tutti bianchi, ma per il colore tutti mi credono una ragazza facile e leggera. Capisco anche che giudicano mia madre una donna poco onesta. Perché? Sono regolarmente sposati, siamo tre figlie femmine, mio padre è uno stimato professore scienziato che lavora per la famiglia, mia madre sapeva vedere il colore della sua anima e non quello della sua pelle. Lei è stata una moglie rispettata e felice e io sono orgogliosa di mio padre e di lei. Io sono diplomata, mia sorella musicista, la giovane studia medicina: siamo buone ragazze cattoliche. Perché in questo Paese tanto caro al mio cuore le donne di colore sono sempre rappresentate svestite, indecenti? Nei bellissimi paradisi dei vostri grandi pittori nessun’anima è di colore. Non si crede che una giovane colorata possa amare con la sua anima e dopo la morte godere il cielo? (J. P. W., FIRENZE)
Il Suo modo di vedere sulla parità di razza dipende da che Lei vive in Italia dove stranieri fanno singoli casi, ma provi a vivere nei quartieri arabi in una città africana o in Francia in mezzo dei algerini o in America in mezzo dei negri, o cinesi o in mezzo agli ebrei in qualsiasi luogo siano in maggioranza. Allora vedrebbe se loro hanno tanta bontà verso ariani o bianchi. (ANTON AMPOS, HAUSEN)
Quelli che, tra noi bianchi e ariani, fomentano il razzismo dovrebbero immaginare per pochi minuti di essere di colore diverso o religione diversa, pensarsi umiliati, derisi, perseguitati, e alla fine soppressi. Un essere umano è o non è degno di rispetto per il suo animo e non per la sua pelle. (BOY SCOUT, MILANO)
Ariana e cattolica devo sposare un ebreo cittadino italiano; ci vogliamo bene, ma qualcosa d’indefinibile mi trattiene. Timore che egli possa essere perseguitato a differenza di tutti gli altri uomini. Mi parli a lungo degli ebrei e dissipi se può questa mia titubanza. (23010259, GENOVA)
Non esiste una razza superiore ma solo uomini di cultura e intelligenza superiore; gli ebrei come altri uomini di altri popoli si sono distinti nelle scienze e nelle arti in genere. A quelli che li combattono vorrei domandare se caccerebbero Cristo dalla loro terra, qualora tornasse a vivere come figlio d’uomo, inviandolo in Palestina. (A. DE PALCHI, PARIGI)
Lei difende la parità delle razze. Non gliene faccio colpa dato che deve conoscere molto poco l’estero e soprattutto i Paesi leaders dove gli ebrei sono rimossi da ogni impiego di responsabilità. Le dico solo: lasci perdere certi problemi, li sorvoli, non si comprometta. Ho già scritto ventitré lettere in Italia contro di Lei, altri miei amici faranno lo stesso e così oltre cento lettere La denigreranno. (CARLO NICASTRO, CHICAGO)
Basta che io accenni alla parità dei diritti di sesso o di razza per ricevere molte lettere di consenso e molte altre che manifestano una violenta reazione contraria. Queste ultime sono davvero lamentabili perché provano che molti, invece di affermare in qualche modo la propria superiorità spirituale, tentano di stabilirne una derivante da qualcosa a cui essi sono estranei: e cioè dalla loro nascita. Gli uomini veramente superiori non hanno bisogno, per dimostrare di esserlo, di affidarsi ad altro che a se stessi. Ho riunito alcune delle numerose lettere ricevute circa questo problema; e ho dato maggior spazio a quella, bellissima, della studentessa americana perché essa esprime, con accorato stupore, i sentimenti di coloro che sono -senza colpa e, anzi, nonostante i loro meriti personali – derisi, disprezzati o perseguitati. L’uomo è colpevole o innocente per ciò che compie nel corso della sua vita, non per le origini di essa; giacché noi possiamo difenderci dal male, non accettare di commetterlo; ma dall’atto che altri compie per metterci al mondo non possiamo difenderci. Non siamo noi a scegliere la condizione della nostra nascita; e ciò che è estraneo alla nostra volontà non può esserci imputato come una colpa. In una delle celle del carcere di Roma, in cui furono rinchiusi gli innocenti massacrati alle Fosse Ardeatine, fu trovata – scritta da un ebreo – questa tremenda icastica frase: «Condannato perché nacque». E nessun popolo civile può permettere che un uomo sia condannato con una simile motivazione.
La paura è alla radice dell’animosità di cui il lettore tedesco parla nella sua lettera; chi ha paura cerca di difendersi prima ancora di essere offeso, perché la paura genera l’odio. Per chi ha sofferto persecuzioni razziali il bianco, l’ariano – pur innocente e ben disposto verso di lui – diverrà l’oppressore per antonomasia; lo attaccherà per paura di essere attaccato. Ciò è ingiusto e deprecabile; ma solo quando nessuno avrà più paura di essere perseguitato senza colpa, una simile reazione istintiva potrà essere superata.
La lettrice genovese mi chiede di parlarle a lungo degli ebrei; ciò sarebbe impossibile qui, per motivi di spazio – ma le basterà aprire qualsiasi storia mondiale della civiltà per rendersi conto che gli ebrei hanno contribuito ad essa, largamente, in ogni campo. Perciò se ella ha trovato affinità spirituali con il suo fidanzato non dovrebbe esitare a sposarlo; non solo perché, quando amiamo davvero, il nostro stesso amore ci spinge ad essere solidale con l’amato anche per ripagarlo, direi, delle ingiustizie che egli teme dalla società; ma, soprattutto, perché noi ci auguriamo che nessuno sarà mai più perseguitato, per simili motivi, nel nostro Paese. Tante lettere che ricevo in favore della parità dei diritti di nascita – e la qualità di chi le scrive – mi provano che questo problema non sarebbe mai sorto in Italia, se non fosse stato svegliato ad arte da una propaganda politica e sancito da una legge alla quale, oggi, la nostra Costituzione ha riparato.
Infine il lettore di Chicago crede che io difenda questi diritti perché non conosco l’estero; mentre proprio la lunga e profonda conoscenza di altri Paesi – e anche di quello in cui egli vive – mi ha convinto che, dappertutto, ciò che conta è solo l’individuo. Del resto, recentemente, coloro che negli Stati Uniti si battono contro la segregazione razziale hanno ottenuto una grande vittoria; per raggiungere questa necessaria affermazione dei diritti dell’uomo in un mondo di civiltà non solo materiale ma spirituale, bisogna che vi siano persone disposte a non sorvolare certi problemi – come invece il lettore consiglia – a non aver paura di compromettersi. Cento lettere scritte solo per additare che io sono tra queste rappresentano un riconoscimento troppo lusinghiero: e che m’incita a raddoppiare il mio impegno nella speranza di riuscire ad esserne meritevole davvero.